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La vite nell'Italia romana


     La vite ed il vino hanno origini antichissime. L'Italia venne definita da Sofocle (V sec. a.C.) terra prediletta dal Dio Bacco.
     Diodoro Siculo sosteneva che la vite da noi cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.
     L'arte di coltivare la vite sembra sia stata introdotta dai popoli Ariani provenienti dagli altopiani dell'Asia Centrale. Alcuni testi greci sostengono, invece, che la coltivazione della vite, almeno nella parte meridionale dell'Italia, sia stata introdotta dai Fenici. Altri studiosi ancora ritengono che la viticoltura sia stata introdotta dagli Etruschi, provenienti dall'Asia Minore, che tra il IX e VIII secolo a.C. si erano installati in Etruria (attuale Toscana), esattamente nelle terre tra il Tevere e l'Arno.
    I Greci, venuti in seguito, non fecero che migliorare la tecnica di coltivazione della vite, ma principalmente di preparazione del vino.
    Intorno al V secolo a.C. Erodoto ed altri scrittori greci definirono l'Itlalia meridionale, in considerazione dell'importanza che la viticoltura aveva assunto in quella regione, Enotria, ossia produttrice di vino; nome che poi si estese a tutta la penisola.
    La penisola italiana, sin dalla antichità si dimostrò adattissima per la produzione del vino. L'espansione della viticoltura nella Sicilia e nell'Italia meridionale ben presto determinò, una contrazione delle importazioni di vino dall'Egeo e dalla Grecia. Nel III secolo a.C. l'Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l'esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a.C..
     Durante l'epoca repubblicana ed imperiale i Romani diffusero enormemente la coltura della vite in Italia, ma anche in gran parte delle province che man mano conquistavano. Le province romane ed in particolar la Gallia, richiedevano vini in abbondanza. I vini ricercati dai romani erano liquorosi ed annacquati, mentre i Galli insistevano nel loro barbaro (per l'epoca) gusto di bere il vino puro, ossia non miscelato con l'acqua come faceva tutta la gente civile.
     Tutto ciò spinse verso l'espansione della viticoltura, ma soprattutto verso l'incremento delle rese unitarie, dato che la viticoltura richiedeva grossi investimenti. Furono, pertanto, introdotte nuove varietà di viti più fertili. Inizialmente, infatti, le varietà di uve da vino più famose, di origine greca e molto coltivate in Sicilia, nella Magna Grecia e nelle conquiste romane, erano le "Aminee" e le "Nomentanae" ricche di colore; esse davano vini pregiati. Vi erano anche le "Apianae o Apiciae", uve a sapore moscato che, quando erano mature, attiravano le api ("apes"). Si piantavano, però, anche viti più produttive e resistenti, provenienti dalle province, quali la "Balisca" (originaria, secondo Columella, di Durazzo in Albania), la "Rhaetica" molto diffusa nel veronese e la "Buririca", ce ha dato origine ai vigneti di Bordeaux, oltre alla "Lambrusca", vite selvatica dalla quale si ottenevano vini di scadente qualità.
     In epoca imperiale sembra che un ettaro di vigneto riuscisse a produrre fino a 150 quintali di uva. Lungo l'Adriatico tra Ancona e le paludi di Ravenna si avevano rendimenti di 200 ht./ha, mentre a Faventia anche di 300 hl./ha. Tutto ciò contribuì al crollo delle importazioni dei vini greci favorendo la commercializzazione dei vini italiani.
     A partire della metà del II sec. a.C. si perde l'interesse per i vini del mare Egeo e cominciano ad essere apprezzati i migliori vini italiani, ai quali vengono dati dei nomi. Fino all'inizio del II sec. a.C., infatti, i buoni vini italiani non erano ancora classificati per zone viticole ben delimitate o per cru. La nascita del più antico dei cru italiani, il Falerno, si fa ufficialmente risalire al 120 a.C.. Secondo Plinio i vini italiani cominciarono ad acquistare rinomanza dopo l'anno 600 di Roma. Ciò è da collegare con l'arrivo in Italia di schiavi orientali, più esperti di vigneti e di vinificazione dei romani, e con l'introduzione dalla Sicilia di nuovi vitigni di qualità, quali la "eugenia", e di nuove tecniche viticole. Negli impianti dei vigneti in funzione delle condizioni pedoclimatiche, si segue sia la via della qualità che quella della quantità per rispondere alle varie esigenze dei mercati.
     Verso la fine della repubblica i vigneti prosperavano, i grandi cru si moltiplicavano e i loro proprietari si arricchivano. La viticoltura dunque, si espandeva in tutto il territorio italiano e anche nelle province.
     La Sicilia produceva grandi quantità di vino. Monete dell'epoca (550-200 a.C) raffiguranti grappoli d'uva o ceppi di viti furono coniati a Naxos, a Catania, a Enna, a Lipari e nei paesi delle falde dell'Etna.
     Per il commercio del vino proveniente dalla Sicilia, i romani utilizzavano Naves Vinariae (navi vinacciere)piuttosto piccole, veloci e resistenti alle tempeste, capaci di circa 300 anfore, cioè di 2,78 tonnellate. Anche nel Lazio la viticoltura era molto antica; secondo Plinio essa esisteva prima della fondazione di Roma. La produzione di vino, però, fino al 121 a.C. non fu abbondante    nè molto apprezzata.
     Il vino più rinomato a Roma era il "Falerno", prodotto al confine tra il Lazio e la Campania, molto alcolico, di colore ambrato o bruno, che subiva un invecchiamento di almeno 10 anni. Apprezzato, come il Falerno, era pure il "Cecubo" del Golfo di Amicla nel territorio tra Terracina e Gaeta.
     Citati da Varrone sono i vigneti del territorio di Milano. Molto diffusa era anche la viticoltura lungo l'Adriatico, dal Picenum fino al delta del Po.
     Annibale nel 217 a.C. trovò grande abbondanza di vino nel Picenum. Il vino di Taranto restò un grande cru sconosciuto fino al II sec.. Le esportazioni di vino dalla costa adriatica verso la Grecia riguardarono, sotto l'impero, soprattutto i grandi cru che si trovavano ad Hadria (Atri), Praetutti e Ancona.
     da un punto di vista cronologico i grandi cru cominciarono ad essere riconosciuti nel II sec. a.C. e continuarono ad accrescersi di numero durante due secoli. Alla fine della repubblica erano noti e ricercati solo tre cru: il Falerno, el Cecubo e l'albano. Questi tre vini rimasero a contendersi i prime tre posti fino all'inizio del regno di Augusto.
     Sotto Augusto oltre ai tre grandi Cecubo, Falerno e Albanum, buona reputazione ebbero nuove celebrità, quali i vini di Setia e di Sorrento, il Gauranum, il Trebellicum di Napoli e il Trebulanum.
     Secondo lo stesso Plinio fin dalla prima metà del I secolo a.C. i vini italiani avevano cominciato a godere di fama uguale o superiore a quella dei migliori vini greci. Nello stesso periodo, però, cominciavano a farsi conoscere i vini spagnoli; la conquista dell'Ibera, nel 133 a.C., aveva reso possibile la concorrenza dei vini iberici. Il vino "Betico" arrivava a Roma in grande quantità; molto apprezzato era, secondo il poeta Marziale, il "Ceretano", ossia il vino di Ceret (Jerez de la Frontera).